Taciti, ma fortemente commossi, stringendoci la mano come non avevamo fatto mai, raggiungiamo il muro, e ci mettiamo in agguato. Intanto, al primo colpo della mitraglia nemica verso il canneto, si sveglia una tempesta che obbliga i difensori a guardarsi su tutta la linea di difesa: le bande si spingono sotto; è da una parte e dall'altra un fuoco d'inferno, che dura lungamente nella notte. I nostri, dalla spianata tentano di avvicinarsi alle porte; ma inutilmente, da principio: la gragnuola delle palle è così fitta da mozzare il fiato. Dopo un'ora di quel frastuono si giunge ad accostare della stipa alla porta minore, e ad appiccarvi il fuoco. Alla vampata fumosa si rischiara un po' l'aria, e in quella mezza luce rossastra si agitano ombre nere di assalitori. Voci dall'alto del muro, come quelle delle furie dantesche dal sommo delle mura di Dite, s'intrecciano in un suono con le voci del basso, e in quel suono assordante si distinguono a tratti le più feroci ingiurie, le più pazze imprecazioni, le più strane contumelie che siano mai state pensate in due lingue e in una ventina di dialetti. - Lâches Garibaldiens! - Sì, venite, qui, canaglia, e ve lo daremo noi il lâches! - Carne venduta! - Vauriens! chenapans! - Brutti boia! - Assassini! - Brigands! - Mascalzoni! Fioi de cani! Pito ch'i seve! E taccio, per ragioni facili a indovinarsi, le gentilezze maggiori; tralascio sopra tutto le genovesi e le livornesi, che nel campo della ingiuria salace ottengono certamente la palma. Ma allora non urtavano i nervi, non suonavano male all'orecchio; la gravità del momento solenne toglieva la volgarità all'improperio, lo faceva parere epico, omerico, tra il piombo che fischiava e crepitava per ogni dove, mentre la fiammata si vedeva salire in vorticosi giri, e un gran fumo, screziato di faville fantasticamente danzanti, involgeva le mura.
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Garibaldiens
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