Il nostro maggiore non era stato alle mosse: aveva sentito gridare in genovese; certamente la prima compagnia era impegnata; e lui sotto, e noi dietro a lui, restando poca gente all'agguato. Ma che agguato, oramai? Il presidio pensava a difendersi, non a fuggire. Tutti quanti, in breve, correvamo verso la casa in costruzione, donde si sentivano i nostri genovesi, e donde giungevano a noi le sonore invocazioni parmensi di Faustino Tanara. Di lassù una più bella fiammata si vedeva più oltre, davanti a porta Pia. Stefano Canzio aveva avuta una delle sue felici ispirazioni. Raccolto dai vicini casolari tutto lo zolfo avanzato ai coloni dalla cura dei vigneti, ne aveva fatto una carrettata, con molta stipa e tronchi di legno. Il carretto era stato spinto contro la porta, e un ragazzetto, garibaldino precoce, andando dietro la mobile catasta, le aveva appiccato il fuoco. Bravo ragazzetto volontario, vorrei ricordare il tuo nome! E si salvò ancora, il coraggioso, tornò illeso alle file. Nè i difensori valsero a spegnere il fuoco; tardi pensarono all'acqua; di spalancar la porta, liberare il passo da quel brulotto rotabile, non c'era nemmeno a pensare; i nostri, avanzati sotto il muro, e là nascosti in attesa, avrebbero fatta in due salti la strada per entrar dentro alla svelta. Ce n'erano dei morti, lì davanti, in gran numero: li vedemmo la mattina, tutti colpiti alla testa, alla gola, al petto, o caduti bocconi, sulla propria ferita, i valorosi!
La fiamma aveva fatto presa; in breve ora si abbronzarono, si arroventarono gli assi chiodati; divamparono, cigolarono le poderose imposte, diventando di bragia; un'ora dopo, la breccia era fatta; tra gli avanzi del carretto e quelli dell'uscio, mentre cadevano ancora a falde incandescenti i brandelli di legno, si ficcarono dentro i più animosi, dilagarono nella strada maggiore del borgo, mentre i difensori, chiuso da quella parte l'uscio ferrato del castello, si mettevano al riparo.
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