Mi tese la mano e volle stringer forte la mia, ma non potè: ben poteva parlare, quantunque a mezza voce, per chiedermi di tutti gli amici. Diceva ad uno ad uno, lentamente, i nomi che gli venivano alla mente; ma era uno sforzo, e volli risparmiarglielo, dicendoli io come mi venivano ricordati.
- Io son morto; - mi disse; - la palla è nel ventre.
Gli rammentai allora qualche amico a cui era toccata una sorte uguale, e che pure non era morto. Accettò la consolazione, forse per non avere a discutere. Volle farmi vedere il suo portafogli, che aveva fatta deviare la palla, restandone lacerato in un angolo. E tante altre cose mi accennò, più che non disse, il povero Bepi, come lo chiamavamo noi tutti nella intimità della vecchia amicizia; nè tutte le cose che accennò sono da ripetersi qui.
Giuseppe Uziel era nato a Venezia; fanciullo, coi parenti esuli, era venuto a Genova, e la nostra città fu patria seconda per lui. Qui studiò, amò, sofferse, divenne uomo, insomma, adoperandosi in tutte le lotte aperte, in tutte le preparazioni di lotta. Dal '58 in poi non era stato tentativo patrio, non guerra, che non lo avesse volontario e prode soldato. Tale era stato in Lombardia, tale in Sicilia, tale nel Trentino e nell'Agro romano. Comandava la prima compagnia del primo battaglione genovese, agli ordini del Mosto; con lui saliva animoso all'assalto di Monterotondo, e là, davanti alla spianata del castello Piombino, una delle prime palle nemiche lo aveva fulminato nel ventre.
Fin da principio non c'era da sperar nulla; ed io bene lo intendevo, prendendo commiato, e promettendo di ritornare.
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