Così, mentre i miei compagni lasciavano improvvisamente gli alloggi della cascina Villerma per scendere sulla linea della strada ferrata in attesa di proseguire verso Roma, noi eravamo occupati a ministrar la giustizia sommaria. Il tribunale fu umano; mandò in prigione i gendarmi e in prigione il frate: quest'ultimo senza darne sentenza, che, dopo le testimonianze gravissime, sarebbe stata dolorosa, e rimettendo il giovane domenicano alla clemenza di Garibaldi. Ciò non era secondo le norme del diritto, nè della procedura penale; ma contentava la nostra coscienza, e cui non piace la sputi. Garibaldi lo lasciò in carcere, per custodirlo contro le ire di molti; l'ultimo giorno delle nostre imprese sul territorio nemico, il fraticello fu rilasciato libero al confine, senz'altro danno che la paura. Non fu riconoscente, per altro; e me ne duole moltissimo, rispettando io i frati, non essendo stato il più tiepido dei giudici a favorirlo, e avendo ottenuto dall'ottimo presidente che perorasse quella stessa notte presso Garibaldi la causa del disgraziato. Egli scrisse, di fatti, un anno dopo, o giù di lì, una Mano di Dio negli ultimi avvenimenti, in due volumi, se ben ricordo, dicendo corna dei giudici. Quel piccolo martirio incruento gli sarà giovato, del resto; credo che oggi sia cardinale; certo, del suo casato, ce ne son due nel sacro Collegio.
Quella sera, mentre il Pianciani galoppava a Santa Colomba, dove Garibaldi aveva portato il suo quartier generale, io galoppavo in traccia dei miei compagni genovesi.
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