Per questo fatto le cose prendevano una piega diversa. Bisognava far testa a Monterotondo, l'ultimo punto a cui giungesse la strada ferrata, donde potevamo aver munizioni e vettovaglie, dove, infine, si sarebbero presi i provvedimenti opportuni per proseguire la guerra. Il Generale ordinò che si facessero fuochi sul monte Sacro, per simulare un bivacco; noi dell'avanguardia restando in retroguardia, dovevamo tenere la posizione fino a tanto il piccolo esercito non fosse tutto avviato, fuori da quel labirinto di colline. Per intanto, rompevamo le staccionate dei prati, e facevamo cataste di legna intorno ai giovani pini che fiancheggiavano la carraia. A quelle cataste, essendo venuta la notte, appiccammo subito il fuoco: un'ora dopo avevamo l'avviso di poterci mettere in marcia. Un panico notturno, per lo scontro di due colonne, una delle quali aveva smarrito il sentiero e pareva venire dalla parte di ponte Molle, fece correre qualche fucilata. Ne seguì naturalmente un po' di scompiglio. Il maggiore Burlando, giustamente interpetrando l'ordine che avevamo di proteggere la ritirata, pensò che la cosa non potesse farsi a dovere, se non ritornando tutti noi della retroguardia sui nostri passi. Fummo in mezz'ora al nostro accampamento del monte Sacro, tra le cataste che ardevano, malinconicamente sole.
Io pensavo ai bei stratagemmi dei fuochi notturni con cui s'ingannano gli eserciti moderni, come s'ingannavano gli antichi, e cercavo di ricomporre nella mia memoria il quadro dei sarmenti accesi a Casilino, nella guerra tra Cartaginesi e Romani.
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