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      I trecento di Leonida. Digiuno d'Ognissanti.
     
      Sono le undici di sera: "tutto tace il bosco intorno"; anzi, non il bosco, poichè bosco non c'è, ma la macchia nana a ponente della Cecchina. Ci mettiamo in cammino, silenziosi, marciando tutta la notte, guidandoci come possiamo, col far mentalmente alla rovescia quella sequela di giri e diagonali che avevamo già percorsa nella notte antecedente. Fortunati abbastanza, vediamo sull'alba l'eminenza di Castel Giubileo. Non isfuggirò l'occasione d'un bisticcio, dicendovi che per conto mio ci arrivai giubilando. Il maggiore, invece, era di cattivissimo umore, vedendo troppi fucili abbandonati sulla strada, e non bastando i nostri uomini a caricarseli tutti sulle spalle. Che diavolo era avvenuto? Sapemmo più tardi che intiere compagnie, nel ritorno, facevano getto delle armi, gridando di non voler più combattere per una bandiera regia. Donde avessero cavata la notizia, che la bandiera fosse regia, io veramente non so: bandiera, per verità, non ce n'era nessuna: si voleva giungere a Roma, ecco tutto, e alla scelta della bandiera ci pensasse poi il buon popolo Quirite. Altri, per contro, anche prima della marcia al monte Sacro, avevano lasciato il campo, immaginando che la bandiera fosse rossa. Anche questi avevano il torto; ma con una apparenza di ragione, argomentando dal fatto che l'impresa di Garibaldi era stata sconfessata dal governo italiano, e più chiaramente, più solennemente, da un recentissimo proclama reale. Così noi, poveri reduci della vana dimostrazione armata, avevamo il male, il malanno e l'uscio addosso.


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Con Garibaldi alle porte di Roma
1867 - Ricordi e note
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1895 pagine 159

   





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