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      Era il primo di novembre, il dì d'Ognissanti. Non avevamo viveri, nè potevamo sperarne. Si scoperse una cavolaia: lavorandoci attorno per tagliarne, si vide che lasciavamo il meglio in terra; non erano cavoli semplici, ma cavoli rape. Allora si scavò, in cambio di tagliare, e fu portato in cucina tutto il raccolto del campo. Il Tevere diede l'acqua; un paiuolo dimenticato servì a far bollire quella verdura, in due o tre riprese. Ad ognuno toccò il suo tallo; poca cosa, ed insipida, poichè non avevamo sale da mettere in pentola. Ma non fu male che la porzione riuscisse scarsa, e lo sentimmo presto a certi dolori di stomaco; effetto del paiuolo di rame, che non era stagnato.
      Noi eravamo in quelle bellezze, quando dall'avamposto fu dato un allarme. Accorremmo: niente di grave; anzi, una buona sorte per noi. Si avanzava, dopo aver passato il Tevere sulla barcaccia che era in quei pressi, una compagnia d'armati; volontarii, e genovesi, che proprio cascavano a noi, come la manna agli ebrei nel deserto. Li comandava un capitano Valle, di Sestri Ponente, ed erano in gran parte doganieri, bella gente, e bene armata. Il maggiore Burlando offerse loro d'incorporarli: accettarono, formando la quarta compagnia del battaglione.
      Una guida, frattanto, veniva da Monterotondo a cercare di noi. Menotti ci voleva alloggiati in paese, e proprio nel castello Piombino. Andammo subito; ma tanto cresciuti di numero, con tant'altra gente già allogata nelle vaste sale del palazzo barberiniano, ci sentivamo a disagio.


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Con Garibaldi alle porte di Roma
1867 - Ricordi e note
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1895 pagine 159

   





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