) pranzato dianzi alla cascina Villerma.
Anche a stomaco vuoto, č quella una deliziosa serata. Il Generale č di buon umore; ragiona di cento cose cogli amici che assistono al suo modestissimo pasto. Tra essi č il Negretti, il famoso ottico italiano, stabilito a Londra, ma venuto anche lui a fare la campagna dell'Agro romano. Č uno dei pochi che abbiano la camicia rossa. Io, non lo dimentichiamo, ho da tre ore una sciabola, la mia Sitibonda del '66, che m'ha portata quel giorno un amico da Genova, insieme con la mia vecchia divisa grigia e la mantellina nera di carabiniere genovese.
Garibaldi č di buon umore, ho detto; confida ancora. Tre giorni prima aveva settemila uomini; non ne ha pių che cinquemila, oggi; ma saranno tutti buoni? Č il dubbio di parecchi, nella comitiva: il modo tumultuario con cui sono stati accettati e avviati dalle diverse cittā, la poca o nessuna conoscenza che hanno gli ufficiali di tanta gente nuova, raccolta a Terni e avviata in fretta al confine, ritorna spesso e volentieri sul tappeto, anzi sulla tovaglia. Si squaglieranno a poco a poco, dice un pessimista.
- Ebbene, - conchiuse Garibaldi, - quando saremo in trecento, faremo come Leonėda. -
Egli pronunziava Leonėda, con l'accento sulla penultima. L'ho giā notato altrove, ed ho anche soggiunto: "L'eroe di Sparta avrebbe amato udirsi chiamare in quella forma da lui. Chi sa? ora, nel regno delle ombre, o delle luci, ragionano insieme, dopo uno di quei baci elisii, intravveduti dal genio di Dante." Aggiungo ora, per confessione della nostra miseria, che se egli era capace di fare come Leonida, ci sarebbero voluti trecento Spartani, e risoluti al sacrificio, per fargli compagnia.
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