- Generale, siamo qua; - disse Alberto Mario, alzandosi in piedi; - vuol salire?
- No, grazie; - rispose la voce di Garibaldi da quel gruppo di cavalieri ammantellati; - andate pure, vi seguiamo.
La carrozza procedette pių lenta, per non disgiungersi da lui; ed anche per non istancar troppo i soldati che seguivano a piedi, ma che, dopo tutto, il freddo della notte faceva pių svelti alla corsa. Giunti a Passo Corese, smontammo ad una casetta alcuni passi distante dal confine. Bevetti colā poche gocce d'acqua; le prime, dopo tante ore di fatica. E passammo il ponte, accolti fraternamente dai granatieri del colonnello Caravā, che ci offersero quanto avevano. Ringraziammo, non accettando nulla: tanto poteva pių l'amarezza che la fame. Sapemmo allora che nella giornata i soldati dell'esercito regolare avevano disarmato via via duemila volontarii, ripassanti il confine.
- A che ora? - domandai all'ufficiale che ci dava la notizia.
- Fra le due e le quattro; - mi rispose.
Molte cose si spiegavano allora. Aveva ragione l'ufficiale pessimista, che due giorni innanzi, nel palazzo Piombino, alla tavola del Generale, aveva detta cosė crudamente la sua opinione su tanta parte delle nostre forze in campagna. Se quei duemila fossero rimasti nelle file, sarebbero giunti in azione al momento opportuno di slanciar le riserve. Erano alla coda, forse ancora a Monterotondo, udendo il fuoco d'inferno che si faceva a Mentana; avevano pensato ai casi loro, e risoluto di conservarsi per giorni migliori. Ottima gente! e non essi soltanto, che se n'erano andati, ma anche le molte migliaia che se n'erano rimaste a casa!
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