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      È ancora rimasta a noi la canzone di que' poveri villani:
     
      Pa pa renotte pa!
      Veci messire l'abbé que Dieu ga.
     
      (Zitte, rannocchie, zitte! Ecco qua monsignor l'abate che Iddio guardi). Altrove era obbligo di danze, quando meno se ne aveva voglia, e senza aiuto di musica; oppure di salti e ruzzoloni d'ubbriachi, senza aver bevuto vino, nè idromele, nè sidro. Per segno di servitù bisognava in certi giorni solenni recarsi in processione davanti al portone del castello padronale, e là, ad un per uno, baciarne divotamente la toppa; in altri giorni andar lassù, trasportando un uccello raro e minuscolo, la cui gabbia era posta su d'un carro tirato da quattro cavalli. Follie, insomma, follie del diritto feudale, su cui ci sarebbe da scrivere un libro intiero, se già non se ne fossero scritti parecchi.
      Rainerio aveva dunque ragione, quando prometteva alla bianca Getruda ch'egli avrebbe immaginato ben altro, per vincere la ritrosia del padre di lei.
      Il giorno stesso che quel dialogo era occorso tra lui e la fanciulla, Rainerio partiva sollecito, con buona scorta d'uomini armati, alla volta d'Acqui, recando al conte Anselmo un bel sacchetto di cuoio, pieno d'oboli d'oro. Le visite a mani vuote non sogliono piacer troppo ai padroni; ed è bene andare con le offerte quando si ha qualche cosa da ottenere.
      Il castellano, del resto, non offriva niente del suo; solamente portava un mese prima del solito quella parte degli annui tributi che gli aldioni e i censuarii della contea pagavano sempre in arretrato, dopo fatte le ultime vendite delle provviste invernali; delle castagne, per esempio, delle legna e del carbone, che erano il reddito più forte e più sicuro di quelle montuose regioni.


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Il prato maledetto
Storia del X secolo
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1909 pagine 213

   





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