Ciò forse avviene perchè sentiamo in quel momento le voci della pietà, di questo sentimento divino i cui germi ha nel cuore ogni creatura mortale, spesso dimenticati e dormenti, non mai soffocati o distrutti? O forse avviene perchè nel discorso di un matto vien voglia a noi, curiosi animali, di cercare quel tanto di saviezza che ci han lasciato le vecchie consuetudini della ragione? Passiamo questo problema ai filosofi; essi lo scioglieranno, come ne hanno sciolti tanti altri.
Rainerio pensò che il matto fosse men matto di quanto si credeva comunemente. Se fosse stato solo, lo avrebbe castigato lui, l'insolente discorritore, matto o savio che fosse; ma c'era il conte, e davanti a lui non si poteva aprir bocca.
Del resto, il castellano pensò ancora tal cosa che doveva rimettergli un po' di fiato in corpo: pensò che la supposizione impertinente del matto avvalorava in buon punto i suoi stessi ragionamenti.
Legio, come diavolo, altro non poteva essere che un sogno del suo spirito infermo. E il sogno, sicuramente, si era formato in questa guisa. Gli avevano riferito di un tale, pazzo davvero, o scimunito, che si era vantato di poter falciare il prato in un giorno. A lui quel vanto aveva fornito il pretesto di accorciare il termine della prova. Il pretesto, naturalmente, gli aveva fatto nascere il desiderio; e il desiderio non poteva aver preso corpo in visione? Oppure lo smargiasso si era presentato davvero per farsi iscrivere nella gara, e all'ultima ora gli veniva meno l'ardimento di entrare in campo, per sostenere i suoi vanti.
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Il prato maledetto
Storia del X secolo
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano 1909
pagine 213 |
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