Se non che erano dei capolavori sì, ma dei capolavori relativi alla superficialità del tempo. Tempo nel quale pareva quasi che la vera grandezza fosse riserbata ai poeti e ai filosofi, i quali accettavano la piccolezza dell'opera musicale, dandole chissà quale interpretazione fantastica. Così Schopenhauer, complessa natura di pensatore d'artista e di viveur, s'estasiava davanti alla volontà di vivere del ridente Rossini, al modo stesso che il suo figlio spirituale Nietzsche perdeva la testa davanti alla musica «dai piè leggeri come il vento» della Carmen, la quale per lui simboleggiava nientemeno, che l'astutissima flessibile adorabile musica mediterranea. E si sa quanto oro, quanto tepore, quanto profumo meridionale contenesse per il poeta del Riso questo vocabolo di «mediterraneo».
Comunque, era sempre la poesia (o la critica poetica: se più piace) che dava un'arbitraria grandezza alla musica. La vera grandezza, ripeto, era riserbata soltanto ai poeti e ai filosofi.
Il grazioso e un po' affettato Mozart, il gaio adolescente settecentesco, dal sorriso malizioso e dai languori affettuosi e delicati, aveva creato un'opera buffa imperitura, figlia e nipote dei gloriosi modelli italiani, e il cui tipo aveva incontrato le grazie di tutti i compositori italiani. Più che a tutti piacque a Rossini, che soleva chiamar Mozart il «Dio della musica»; la quale opinione perdura ancora nella coscienza di alcuni, tanto che, se non erro, in un manuale di musica moderno, ebbi a leggere con un certo stupore, come Mozart fosse il più gran genio che della musica sia mai esistito, un uomo così sbalorditivamente musicista che trasformava in musica tutto quello che toccava.
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