Il movimento delle onde giunge, se vi giunge, in basso, quando già su in alto un nuovo movimento s'è manifestato. L'ambiente musicale assolutamente sterile di nuove idee, nate dal contatto diretto della vita libera e aereata dai vasti venti della coltura, si pasce quasi delle briciole che lascia cadere il sereno banchetto dei grandi spiriti. Da questa specie di vecchiaia precoce, di morte quasi direi necessaria e congenita alla nascita dell'opera, viene spiegato il senso di vuoto che cova sotto la Cavalleria. Certo la freschezza dello spirito del Mascagni c'incanta, e se noi giungiamo ad astrarre l'opera dal momento storico in cui siamo immersi, e ad assorbirci tutti nell'angusto cerchio della vita dello spirito italiano, quasi ci sentiamo spinti a proclamare la Cavalleria un capolavoro. Ma anche ammettendo, come io fo di buon grado, la fresca spontaneità di quest'opera contrastante con le bolse produzioni del falsissimo teatro melodrammatico italiano – un teatro che ci ha dato talora per buone delle putrefazioni romantico-sentimentalistiche della forza d'una Gioconda del Ponchielli – il nostro spirito, se aperto a tutti i venti che agitano la storia contemporanea e alle voci dei suoi problemi spirituali, trova presto in quella freschezza la barriera della puerilità e dell'incoscienza, e in quella spontaneità – il limite cieco della futilità. Non siamo dinanzi a una di quelle opere che c'inquietano e ci fecondano, se non altro di contraddizioni, come qualche libro di Zola un tempo, e come il Pelléas di Debussy, oggi.
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