Il libretto, come ognun sa, non è che la traduzione discretamente sciatta che Andrea Maffei fece della tragedia romantica di Enrico Heine. Per quel che riguarda il poema heiniano, non è da dubitare che invece di una tragedia voluta bella e riuscita ridicola, si tratta di uno scherzo di buonissimo gusto. In un paese dove come nella Germania, il maggior tragico, lo Schiller, per imitare Shakespeare e i tragici greci produceva tragedie affatto indegne di stare allato ai sublimi modelli inglesi e greci, se non altro che per il fatto stesso che avevano bisogno di modelli per essere intese a dovere; niente di strano se l'inflessibile critico del cattivo gusto e dell'ingenuità tedesca abbia voluto contraffare ironicamente quel tipo d'arte con una tragedia in cui tutto l'arsenale dei luoghi comuni del teatro tedesco – luoghi comuni che si sono infiltrati discretamente anche nell'opera wagneriana – venisse a bella posta adoprato con mano umoristicamente prodiga. Del resto anche senza ricorrere all'ipotesi d'una cosciente satira dei falsi tragici tedeschi, chiunque abbia dimestichezza con lo spirito di Heine e con gli spiriti affini e fraterni, sa benissimo come certi loro stati d'anima, anche senza potersi chiamare umoristici, confinano con l'umorismo. C'era quasi in essi un'impotenza artistica – impotenza se noi teniamo fissa la mente alle più sublimi forme dell'arte – e un'amarezza ironica sempre pronta a zampillare, che facea lor volgere in un ridicolo doloroso anche ciò che pur avessero intrapreso come qualcosa di serio.
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