Del quale stato d'anima angoscioso e pure accettato con serenità, non era esente, a me così pare, neppur lo stesso massimo Goethe.
Ma, com'ebbi già a dire altrove, Pietro Mascagni con la sua solita beata ingenuità ignorante poco si è occupato d'indagare il significato tortuoso e duplice del poema di Heine. Ha creduto così, alla buona, alle tirate umanitarie del socialistoide Ratcliff, s'è entusiasmato romanticamente alle apparizioni spettrali nelle foreste scozzesi alla Walter Scott, ha animato musicalmente l'inanimato contrasto erotico del protagonista; e ha creato, in mezzo alle brutture d'un'opera enfatica e volgare, una specie di nucleo musicale, d'un romanticismo schietto e simpatico, affine, sebben più grossolano, a quello di certe ballate di Chopin, di certi poemetti vittorughiani e di alcune concezioni wagneriane della prima maniera.
Ho detto: una specie di nucleo, e avrei dovuto dire addirittura un poema o una suite lirico-sinfonica. Giacchè se il Mascagni ha creduto di creare un'opera, a sua insaputa, credo, egli ha creato in mezzo alle costruzioni inutili di quattro atti che non riescono a star bene insieme, un centro vivo, un nucleo musicale a sé, che è quello che regge in piedi l'opera dinanzi al pubblico e che impedisce allo stesso di fischiare quest'opera, realmente, come opera, sbagliata. Ora l'ufficio della critica non deve esser sol quello di dimostrare l'inesistenza estetica di quella tale opera, in cui le parti belle non formino un organismo con tutto il resto dell'opera, ma da questo si distacchino come frammenti compiuti d'un edificio incompiuto.
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