Per ogni scena di quest'Iris tremola come un multivolo troll di astuta follìa. I colori orchestrali s'impastano con delicati e quasi direi fulminei contrasti; e ora scivolano glaciali e striati come pelle di serpi, e ora ondeggiano come nebbie leggermente iridate. Ogni tanto un'argentinità squillante e melodiosa scande il ritmo – ad altra parte l'esame dell'istrumentazione mascagnana, la quale possiam dire fin d'ora arricchita di tutti i modernismi più audaci della tecnica strumentale d'oltralpe – ; a volte piene sonorità orchestrali e corali prorompono e allargano i loro flutti pesanti, ma equilibrati. L'immaginazione del Mascagni è stata insomma meravigliosamente eccitata anzi sopreccitata dalla poesia nipponica, che l'Illica ha versato con mani prodighe, se non sapienti, nel suo libretto.
Ma un libretto in stile floreale – giapponese – d'annunziano, e uno sfoggio sia pur delizioso d'una ricchissima gamma orchestrale, non bastano a fare un'opera da mettere accanto alla Cavalleria rusticana. Tutt'al più testimonieranno d'un vero innamoramento del compositore per il soggetto che ha preso a trattare, ma non varranno a elevare l'Iris all'altezza di opera certificante una presa di possesso più audace e profonda della personalità dell'autore della Cavalleria. La ragion vera per cui l'Iris se non intera e perfetta come la Cavalleria, è pur sempre l'unica opera degna d'esser detta sorella di quella, è che per l'Iris noi potremmo ripeter la stessa esclamazione d'Osaka sulla giovinetta dormente: «non è mousmè leziosa di città – ordigno fatto per la voluttà – qui c'è l'anima!
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