Se non che mi si permetta che, giunto qui, io dica qual sia il valore che può avere per un ingegno della forza di quello mascagnano, il così detto capolavoro, l'espressione piena di se stesso. In realtà, relativamente alla potenzialità dell'arte del Mascagni, il capolavoro da lui non può nascere. Il musicista, nel senso che il Mascagni attua l'opera, come del resto l'attuarono i suoi fratelli maggiori e minori della tradizione italiana, non è da più, in fondo, di un affreschista-operaio. Ch'egli abbia una personalità, nessuno anche all'affreschista vorrebbe negarlo, chè se mancasse di ciò come potrebbe avvenire che gli uomini lo chiamassero a preferenza di altri a istoriare vagamente i templi del loro gaudio e della loro obliosa gioia? La questione è che quella personalità non è autonoma, libera, piena di un mondo austero e necessario, che il compositore debba dire ai suoi simili; sibbene, ciò che distingue quella personalità da un'altra qualsiasi, non è poi molto diverso da ciò che distingue un paesaggio da un altro; un paesaggio bello e brutalmente incosciente, cui alcuni uomini per ragioni di esperienze particolari amano e altri per altre esperienze dispregiano. Ond'è che il capolavoro di Mascagni se potrà superare in piacevolezza e freschezza la Cavalleria e l'Iris, non ne potrà mai superare il carattere di casualità e quindi d'inutilità che ho già dimostrato in esse. «Siamo nel paese dove si canta senza sapere il perchè». E dove, aggiungerei io, ogni compositore colora tale tradizionalità di melodia, di colori personali diversi sì, ma dove nessuno dei compositori supera la tradizionalità cieca creando una forma nuova e piena di significati veramente storici.
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