Così al Mascagni era impossibile ridestare quella coscienza profonda dell'italianità che intraluce nelle formidabili creazioni di Dante, di Virgilio, di Carducci. Così le Maschere, opera inutilissima, sarebbe indegna ancora d'un'analisi, non potendo la critica abbassarsi alla considerazione d'un'opera in cui si sfiorano irriverentemente i problemi più sacri dell'arte italiana, e quindi della vita della nostra nazione, se quest'irriverenza stessa in fondo in fondo non fosse affatto irritante, ma ingenua e adorabile come certe inconsideratezze degli animi molto giovani, e se in quest'operetta da collegiale non ci fossero alcuni gioielli d'una purezza assolutamente italiana. Ho già detto, e non è male ripetere, che è pur troppo caratteristico del melodramma italiano ottocentesco il non curare affatto l'insieme dell'opera, ma le singole parti, anzi soltanto alcune delle singole parti, e ho già detto come nelle opere più sbagliate e incoerenti del Verdi del Bellini del Donizzetti del Rossini del Mercadante la critica deve fare una scelta rigorosa ma non implacabile dei pezzi che, estranei all'insieme, continuano, quasi con un egoismo indifferente, la tradizione del linguaggio musicale italiano. Questa scelta va pur fatta nelle Maschere, e noi siamo qui per salvare onestamente dalla condanna dello spartito la sinfonia il duetto d'amore e le due danze del 2° atto, ben esigua quantità date le proporzioni gigantesche della partitura, ma di tal qualità, che sarebbe ingiustizia estetica trascurare.
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