Gli spunti melodici dell'Amica sono infatti, come quelli del Silvano, tutto quel che di trito di vecchio di stanco poteva produrre la fantasia del Mascagni in un momento di aridità. Ma a questa specie di retorica iniziale s'aggiunge una seconda retorica nello svolgimento di essi spunti.
Si prenda, ad esempio, nel 2° atto tutto lo squarcio finale dell'opera – l'a solo d'Amica e la sua morte. L'orchestra rugge una frase di nessun valore. Onde di suoni si modellano su linee d'architettura sonora di nessuna novità. Ma quale sfoggio di colori pesanti, wagneriani! Un cromatismo insopportabile, un'esasperazione continua dei sentimenti, in fondo anch'essi di nessun valore drammatico, dei personaggi, rendono il continuo ammassarsi delle parti strumentali ridicolo più che brutto. E il ridicolo raggiunge il colmo, quando Amica, che come tutte le ragazze, sian pure alpigiane, non peserà più, se ben portante, di 90 chili, precipita giù dalla roccia nel torrente con tal fragore di schlaginstrumente, da far credere che ruzzoli giù per la montagna non una giovinetta ma un battaglione intero d'artiglieria e, se più sembri opportuno essendo la scena sulle Alpi, l'armata ricca di cariaggi e d'elefanti, d'Annibal dirò.
Nell'Amica noi non riconosciamo più Mascagni. La sua cara e fresca sentimentalità s'è convertita in quella forma di teatral volgarità di sentimento che, come osservai nella prima parte di questo lavoro, forma la delizia della vita intellettuale della plebe e dei piccoli borghesi. Diciamo francamente che nessuna cosa al mondo, sotto questo aspetto, meritava l'onore di essere spedita all'esposizione del cattivo gusto come l'aria: più presso al ciel – più lontan dalla terra, aria che fa fremere di ribellione alle mamme e ai babbi i buoni fidanzati al cui sospirato matrimonio l'accorgimento pratico dei parenti oppone la magrezza dello stipendio guadagnato alle vie ferrate.
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