Molte sono le esuberanze e le inesperienze in questo lavoro, che è congegnato sopra un odio di parte e sopra una spada, e manca in molte parti quella chiara prospettiva dei caratteri e delle cose che è tanto necessaria sulle scene. Evidente è l'imitazione del Guerrazzi.
Al Guerrazzi, per le lettere sue all'autore, è dedicato il Tintoretto(2). La tela di questo dramma è più distesa, più ben dipinta e qua e là tocca ad una larghezza quasi di poema storico. Chi lo giudicasse soltanto dal punto di vista della teatralità potrebbe trovarlo anche una meschina cosa, ma noi sappiamo da un pezzo che teatralità è parola volgare, buona per un successo, e che quasi sempre finisce là dove l'arte comincia, mentre non c'è parola nei drammi de Bazzero, che non sia collocata senza una sicura convinzione artistica. Quei grandi artisti del cinquecento, voglio dire il Vecellio, il Sansovino, lo Schiavone, il Tintoretto e quel grande ludibrio che fu messer Pietro Aretino, si muovono in una scena sfarzosa, piena di colori, e parlano un linguaggio che arieggia il classico del Vasari e del Cellini. Nel Tintoretto ha voluto il Bazzero rappresentare gli sforzi d'un uomo alla conquista delle due più grandi gioie della vita, l'arte e la famiglia, contro tutte le minaccie della fortuna e della volgarità. Al Tintoretto vien sciupato il nome dall'Aretino, e tolta la figliuola diletta dalla peste. Eccone le ultime scene:
Infierisce la peste in Venezia. Due commessari di sanità vestiti in nero e sdrusciti, salgono dal mare al terrazzo ov'è la casa del Tintoretto:
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