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Imbocco la tromba d'oro, squillo tre volte tre, e proclamo a tutti i venti. Udite, udite, udite:
Ditis opes Asiæ et claros orientis honores
Quantaque ab Euxino traditur ora saloPisanas acies Thuscæ decora inclita pubis,
Et traxi ad ligures gallica signa manus:
Subjectis dominans tenui cervicibus Alpes
Et tremuit nostras Aphrica terra trabes.
Afflictus toties Venetus, qua fugerat olimIn patriis novit tela petitus aquis.
Frustra, Galle, cupis, frustra es frustator, Ibere,
Frustra sæva, Ferox Insuber, arena capis.
Vinco ego dum vincor, par est victoria damni,
Sumque eadem domina servaque facta mea.
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In quel tempo in cui dal faro di Genova pendevano i lampioni fumigati e le galee a velatura e palamento, dall'alta poppa teatrale, sparando una straccia di bombarda, si piegavano su un fianco, in quei tempi in cui una barca metteva fuori tanti remi da sembrare un millepiedi, si poteva incominciare con quei versi la descrizione di Genova, prendere l'aire, e gonfiarsi su fino al settimo cielo della poesia. Benedetti tempi! Perchè non sono io nato allora? Allora non c'era questo vezzo ribaldo di schizzare degli acquerelli fuggi fatica: così, e così, quattro pennellate, senza fondo, senza un contorno deciso, magari spropositati di disegno, su un brandello di carta qualunque, per far ridere una marinara che non ci capisca un ette, per far sorridere una marchesa, la quale indovina la sua silhouette elegantissima nei tratti del pennello tinto d'azzurro. Lasciamola lì. A quei tempi c'era l'incisione scrupolosa che vi dava l'idea dell'infinito mare con mille o mille dugento righe orizzontali e digradanti.
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