Falco disse che si rammentava assai bene del signor Cancelliere che non aveva sdegnato di prendere asilo nella sua capanna, che si maravigliava anzi di non averlo ancora incontrato nel Castello, e che lo avrebbe volentieri accompagnato da lui onde dargli esso pure un cordiale saluto.
Il povero Maestro Tanaglia, dopo la fatale catastrofe da noi narrata, in cui s'aveva avuta involontariamente una tanta parte, preso con frequenza da tremiti, febbri e convulsioni, non era presso che mai uscito dalla sua cameretta contigua alla cancelleria del Castello, se non per recarsi in questa a stendere le ordinanze di Gian Giacomo, ciò che però gli costava grandi sudori, poichè dopo un tiro di quella sorte, come diceva desso, aveva perduta interamente la testa.
Entrati in un corritoio ed ascesa una picciola scala, Gabriele e Falco giunsero all'uscio ben chiuso del Cancelliere, ove il primo battendo moderatamente, per risparmiare inevitabili domande disse tosto con chiara voce: "Aprite, Maestro, che sono Gabriele, venuto a darvi la buona notte". Dopo pochi istanti si fece sentire uno strascico di pianelle, e s'udì levare la spranga e dischiudere il chiavistello, indi apertasi lentamente la porta, apparve Messere Tanaglia tenendo una lucerna nella sinistra mano, facendo della destra scudo al lume verso di sè e riverbero sugli entranti: "Siete voi Gabriele?" pronunciò con una voce stentaticcia, sporgendo la testa verso di lui per meglio riconoscerlo, ma la ritrasse tosto indietreggiando due o tre passi, esclamando spaventato: "Ohimè! chi è là! cosa volete! sono ammalato! andate via". E la causa di tale suo terrore fu la vista di Falco ch'ei punto non riconobbe.
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