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      A Verona parecchi nobili, a nome del Vicerè (l'arciduca Raineri) scongiurarono il popolo a lasciare liberamente passare delle truppe avvilite, abbattute, che altro non dimandavano, che di abbandonare al più presto l'Italia. La menzogna sortì il suo fine nell'una e nell'altra di queste due città: a Mantova e a Verona liberamente entrava l'armata austriaca: andava ad incontrarla, il fucile in spalla, il tricolore sul petto, la già organizzatavi guardia nazionale. Non appena furono introdotti gli austriaci, che levata di subito la maschera, dichiararono di non volerne più sortire. Disarmata la guardia nazionale; la vecchia polizia ed il vecchio regime austriaco ristabiliti, cominciarono queste due città a sentire il peso di quelle forzose contribuzioni, che più non si cessò d'imporre da quell'epoca in poi. A partire d'allora, l'armata austriaca padrona di quattro fortezze divenne formidabile, e ben fu dura bisogna quella, che cominciò per l'esercito del Piemonte.
      L'entusiasmo, l'ardore dei milanesi avevan resa facile la vittoria: cacciato lo straniero, restava a costituirsi un governo. Il dominio di trentasei anni dell'Austria in Lombardia aveva chiusa la carriera degli impieghi a tutti quegli italiani, che pel loro carattere, o pei loro talenti avrebbero potuto distinguersi, ed acquistarne fama. Il popolo si trovava costretto a cercare nelle famiglie nobili chi li governasse, e gli fosse capo. Non è al certo priva la Lombardia di uomini capaci di guidare la nazione, a traverso di mille pericoli, sulla via delle rivoluzioni, o della pugna, alla libertà, od alla indipendenza: ma questi, sconosciuti al popolo, che conosce d'altronde i nobili casati, ai quali da tanti secoli acquistarono nome e fama gli avi.


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L'Italia e la rivoluzione italiana
di Cristina di Belgioioso
Remo Sandron
1904 pagine 169

   





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