Eravi allora in Italia una potenza dileguantesi; eravi un'altra potenza che faceasi innanzi covidosa per coglierne il retaggio; e, infine, eravi un'altra potenza ancora, la quale, spiccatasi dalla prima per non lasciarsi trarre con essa nell'abisso, sforzavasi di resistere alla seconda, procurando di tirar dalla sua tutti gli avanzi dell'una che poteano scampar dalle mani dell'altra. A quale di queste tre potenze vorrassi credere che il partito di cui parlo abbia voluto attaccarsi? A nessuna. Acciecato da un ineffabile soverchio di superbia, entrò in isperanza di poter dare l'ultimo crollo al governo imperiale, di potere sdegnosamente ributtare le proposte di Murat, e di far testa all'esercito austriaco. E come sperava esso di potere impedire i progressi di quest'esercito? Voleva forse adoperare a quest'uopo le schiere francesi rimaste in Lombardia? No e poi no. Proponevasi di conseguire il suo intento con bei discorsi, con deputazioni pacifiche, coll'invocare quei dilicati sentimenti d'onore, di probità, di generosità, dai quali i Sovrani collegati, ed in ispezieltà l'imperatore d'Austria, dovevano certissimamente essere informati. E come mai darsi a credere che le truppe austriache volessero passare il Mincio e venire a Milano, quando i Milanesi, dolcemente sì, ma nobilmente le richiedessero di non farlo? A pensare solamente ad un tal fatto, richiedevasi un grado di perversità raro veramente, e i Sovrani alleati a buon diritto avrebbero potuto chiamarsi offesi di un tale sospetto!
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