Pensava inoltre il conte Prina che in siffatte congiunture i membri del governo non doveano abbandonare il loro posto, e domandava agli astanti che mai sarebbe dello Stato se le minacce popolari e i privati timori potessero giustificare la fuga degli uomini cui esso era affidato. E avea certamente ragione; perocchè non sapea che la sua perdita era stata previamente giurata, non già dal popolo di Milano, ma da coloro che si celavano dietro di esso; e che l'istessa sua perdita doveva essere il segnale della caduta definitiva del governo, come pure della totale rovina dell'independenza italiana. Stavasi egli pertanto tranquillamente occupato nel suo gabinetto allorchè il sordo mormorío della moltitudine che ringhiosa appressavasi lo sorprese, senza turbarlo tuttavia; ma raddoppiatosi repentinamente il rumore, e mutato, per così dire, di carattere, alcuni domestici accorsero ansanti e gli gridarono, traversando in fretta le stanze per cercare un uscita, che le porte del palazzo erano state atterrate, e che la plebaglia saliva le scale. Colpito allora dall'inaspettato avviso, nè più potendo dissimularsi il pericolo che gli sovrastava, tentò egli di nascondersi sotto i tetti del palazzo, donde sperava poter passare in una casa vicina. Egli era altronde convinto pur sempre, che solo abbisognavagli guadagnar tempo, e che la forza armata non potea tardare gran fatto ad accorrere sul luogo del tumulto. Il suo nascondiglio fu bentosto scoperto. Vedendosi allora in balía d'un popolo furibondo, il Prina sforzossi di dire alcune parole, chiedendo che gli esponessero i loro gravami e si tenessero certi della sua premura nel farvi ragione; ma niuno diedegli retta.
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