Impegnato che fu il suo amor proprio, il governo si rassegnò a trovar dei colpevoli, e non fu malagevole il suo compito.
Cominciossi per parlare al Pallavicini della congiura come di un fatto notorio ed incontrastabile; poscia, trovando perseverante il prigioniero nel negare un fatto così constatato, e veggendolo domandare con tanta sollecitudine e commozione della propria madre, s'invocò l'opera di questa, la quale, dopo la cattura del figliuolo, non cessava dall'assediare l'anticamera del tribunale. Uno dei giudici chiamolla nel suo gabinetto, l'accolse affabilissimamente, e datele notizie confortanti del figliuolo, la cui fragile salute avea pur troppo a scapitare per una lunga prigionia, aggiunse che la caparbietà di esso nel negare una macchinazione della quale il governo conoscea i più minuti particolari, era cosa fatta per indisporre gli animi contro di lui; che la confessione richiesta al medesimo non era altro che una formalità, un atto di sottomissione indispensabile affatto, ma però tale, che non potea portare sinistre conseguenze per lui nè per altri. Proseguì egli a parlarle in questi sensi, finchè la contessa, interrompendo il discorso, accertollo ch'essa ben comprendeva le benefiche intenzioni di S. M., nè potea dubitare che il figlio non le comprendesse al pari di lei, e non vi si arrendesse con premura e riconoscenza. Interrogò il giudice la contessa Pallavicini se potess'ella sperare d'indurre il figliuolo alla confessione che a lui veniva richiesta, e dietro la risposta affermativa ch'ella diede, la fece introdurre nella prigione del figlio.
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