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      LETTERA 257.
      AD AMALIA BETTINI - LIVORNODi Roma, 27 maggio 1837
      Veramente, mia cara e buona Amalia, allorchè null'altro si abbia ad offerire fuorché scorze spremute di agrumi o vuoti baccelli di fave fa sempre miglior figura chi si presenta colle mani in mano. Nulladimeno questo modo di farmivi innanzi, quando fosse alquanto frequente, trasgredirebbe di troppo un certo vostro precetto, che, sebbene vecchio e forse da voi stessa dimenticato, purtuttavia di tempo in tempo reclama osservanza, poiché una legge rimane sempre obbligatoria sino a che non venga abrogata dal legislatore. Prendetevi dunque ciò che posso darvi, e operate da clemente sovrano chiudendo gli occhi sulla entità del tributo di un suddito poverello. Voi volete qualche volta versi da me: io non aveva altri versi che quelli: sicché o magna sta minestra o sarta sta finestra, dicono le nostre buone lane di Roma. Attualmente io bado pochissimo alla burrascosa letteratura: sono tornato ai più pacifici studi delle scienze, astronomia, fisica, geologia... Un animo da cui va fuggendo la gioventù abbisogna di calma; e le lettere, specialmente in certi tempi ambigui, procurano pochissime ed effimere soddisfazioni. Gloria io non ne cerco, e sarei da legare se ne covassi la pretensione. Dunque che fare per non traversare la vita fra gli sbadigli e il tedio d'esser nato? Osservar la natura. La dolcezza, Amalia mia, che si trae dalla contemplazione dell'universo non può trovar paragone ed apre all'uomo una tutta nuova esistenza. I miei libri di parole sono pertanto ora chiusi per dar luogo a quelli di cose. Porto rammarico del faticoso stato in cui vivete. Ma nella vostra professione gran piaceri e grandi pene! E poi quando vi attaccate coll'animo a qualche paese, eccoti le Ceneri e simili altri giorni di tristezza, e da capo in pellegrinaggio.


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Le lettere
di Giuseppe Gioachino Belli
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