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      Ed io che faccio? Se voi mi dirigeste questa mia dimanda colla quale talora da me stesso io m'interrogo, dovrei rispondervi: nulla.
      Io ho lo spirito agghiacciato e quasi che morto. La memoria mi va sempre ogni dì più languendo in guisa che né solamente dimentico le poche cose da me già lette e sapute, ma le scarse letture permessemi in oggi dal nuovo e penoso mio stato d'isolamento non mi lasciano pur traccia delle notizie che di pagina in pagina io ne venga o ricuperando o acquistando. Ciò per un uomo che sapeva di non esser creato di sola materia deve riuscire assai sconfortante e gettarlo in una deiezione di spirito tormentosissima e in un tedio assoluto di una vita resa affatto vana ed inutile. A sollevarmi dal mio visibile abbattimento i pochi miei amici di Roma vollero negli scorsi mesi far violenza alla mia restìa volontà ripristinando il mio nome nell'albo dell'Accademia tiberina da me già fondata, ed a cui per amor di quiete ragionevolmente rinunziai nel 1828. Ma cosa posso più fare in pro di questo instituto? Per la prosa, giusta esigenza del secolo, mi manca oggi il tempo, la serenità e la suppellettile del sapere, stante che lo scarso che io potessi già avere acquistato ne' miei studi letterarii e scientifici, mi equivale adesso per la perduta memoria ad un patrimonio alienato, e per conseguenza a miseria più aspra perché non stata sempre sì intiera. Circa i versi, mi son questi venuti da buon tempo in fastidio, come allettamenti d'una gioventù che m'è fuggita, e come cose pochissimo in oggi soddisfacienti alla età in cui viviamo. Purtuttavia, siccome più facile riesce il rimare che non il severo parlar da Oratore, qualche verso l'ho pure composto in questi ultimi mesi, rubando qualche ora al sonno e al riposo onde non violare il tempo reclamato dalle mie sacre occupazioni di padre.


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Le lettere
di Giuseppe Gioachino Belli
pagine 963

   





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