Per mezzo della egregia famiglia Topimazio feci nello scorso ordinario sapere a quello di voi due che non siete voi, come un certo Signor Cencio di Cocôla da Amelia, illibatissimo vetturino dello Stato pontificio, erami venuto raccontando che io sarei partito di qui oggi dentro il suo legno, per giungere a Roma a qualche ora del dopopranzo di dimani, 2 del corrente mese di ottobre. Voi però che avete più sale in zucca che non il Principe D. Alessandro ne' suoi magazzini presso la Bocca-della-Verità, vi accorgerete facilmente dalla data della presente se l'illibatissimo Signor Cencio di Cocôla da Amelia me t'ha fatta tonda o di qualunque altra figura che vogliate voi definirla. Il Sig. Cencio di Cocôla che fra il mercoledì 29, in cui fecemi quel tal racconto, e il giorno d'oggi in cui doveva caricare questi due poveri salami di me e di mio figlio, doveva dare una corsa alla Capitale delle prugne appassite, per esser qui nuovamente jersera. Il fatto è però che il racconto della mia partenza, da lui fattomi mercoldì, dovette forse essere una vera voce vaga di popolo, una notizia datagli ad intendere dagli sfaccendati, perché siamo ormai presso al mezzogiorno di questa santa giornata e il Sig. Cencio di Cocôla non si è più visto. Anzi mi si dice dagli spettabili Massari o sensali di piazza che quillu birbo il quale mercoldì era un galantomene da metter paura, ha caricato in Amelia una famiglia di secca-prugne che aveva spasimo di baciar lu piede a lu Papa in Viterbo.
Per le quali belle ragioni eccomi a piede rosicchiando certi cinquanta bajocchi di caparra che attaccherei tanto volentieri all'estremità di cinquanta cordicelle per darne una disciplina a sangue sulle spallucce del Sig. Cencio di Cocôla alla porta del Caravita. Ma perché direte voi altri, perché prendere soli 50 bajocchi per equivalente della fede di un vetturino?
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