Tale è la caccia della ciurma feroce; e dura e durerá fino al dí del giudizio. Spesso nella notte ella passa innanzi al vagabondo a spaventarlo e inorridirlo. E testimonianza ne potrebbe far tuttavia la lingua d'assai cacciatori, se per altre ragioni non convenisse a loro il silenzio(6).
La favola di questo romanzo è tratta da una tradizione popolare in Germania; però è un soggetto bello ed opportuno per un poeta tedesco. Ivi il popolo la crede vera; e da questa opinione acquistandosi fede il poeta, ha potuto a suo talento far piangere e tremar di terrore i suoi lettori. I costumi, ch'egli ha dipinti, sono o costumi de' suoi tempi, o costumi moderni e notissimi al popolo: quindi sempre maggiore l'interesse, e sempre piú aumentata la fede.
Ma noi, lettori italiani, non abbiamo come i tedeschi quella tradizione. E, a volere reputar vera o verisimile la catastrofe del Cacciatore feroce, ci bisognerebbe uno sforzo d'immaginosa superstizione. Ora, che che ne dicano gli stranieri, siamo, noi italiani, dotati di tanta superstizione? La religione nostra ben ci farebbe tenere come racconto verisimile che Dio avesse castigata severamente la ferocia del cacciatore. Ma il castigo strano ed incessante su questa terra piuttosto che nell'inferno, noi non lo crederemmo, perché non abbiamo esempi consimili da paragonargli. Ben è vero che nella novella ottava della Giornata quinta del Decamerone noi leggiamo di una pena sull'andare di questa, benché per colpa tutt'altra. Ma quella storia non è creduta piú in Italia, e forse non era tradizione indigena qui neppure a' tempi del Boccaccio, che probabilmente la tolse ad imprestito dal monaco francese Elinando, scrittore del 1200, e di suo capriccio la traspiantò nella pineta di Ravenna.
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