La Romanticomachia ci par dunque dovere essere considerata come un romanzo. È un romanzo allegorico da cima a fondo, perché l'autore, amando di far ridere, ha scelto l'allegoria perpetua. E tutti sanno che l'allegoria perpetua, massime quando l'allegorista non ne dá la chiave che a pochi suoi famigliari, anziché persuadere gli sbadigli, è la piú efficace promotrice del riso universale.
Terminati i quattro libri, l'autore nell'appendice spiega con severitá filosofica tutta la pompa delle proprie teorie letterarie, mettendole modestamente in bocca d'Urania. Molte sono le stupende novitá teoriche che noi impariamo da siffatta appendice, e tutte opportune a' casi concreti; come a dire questa: che nell'umana natura stanno i principi fondamentali d'ogni arte, principi che sono indeclinabili; e quest'altra: che per saper discernere il bello dal brutto bisogna aver sottile criterio; e quest'altra a un di presso; che per poter fare bei versi bisogna saperli far bene, ecc. ecc. ecc.
Tutto poi questo romanzo, o lodo o arbitrato che lo si voglia chiamare, è scritto in lingua purgata, ma di quella veramente legittima. Né mancano qua e lá alcuni lievi solecismi, ad imitazione della franca trascuratezza degli scrittori nostri piú antichi.
Lo stile adoperato dal torinese è lodevole oltre ogni dire. Sta di mezzo con bella proporzione tra quello dell'Arcadia di Iacopo Sannazaro e quello delle prediche di don Ignazio Venini. L'amplificazione è la figura rettorica che il nostro autore maneggia con padronanza assoluta e con piú frequente predilezione.
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