Esule a Londra, Luisa Michel si compiaceva di vedere la benevolente opera di persuasione di un policeman per far rientrare in casa un ubriaco, come si compiaceva di sentirsi in famiglia negli ambienti aristocratici inglesi, in cui sentiva «l'impressione dell'onestà umana persistente nonostante i maledetti impacci», come si compiaceva, al museo Tussaud, davanti all'effige in cera della regina Vittoria, per la serena bontà che ne emanava. Quando Kropotkin, nelle sue meravigliose memorie, parla della famiglia imperiale, ne parla come uomo che ha conosciuto l'influenza dell'educazione principesca e della vita di corte e sa come quell'influenza determini quanto determina quella della stamberga e dell'osteria. Affabile e prodigo verso i mendicanti londinesi, Kropotkin è indulgente coi principi perché la sua intelligente bontà comprende gli uni e gli altri, pietosa coi paria e giusta verso i potenti, vittime nello spirito. Chi avrebbe sospettato il repubblicano e l'ateo nell'arciduca Rodolfo d'Asburgo? Poteva il Luccheni immaginare che l'imperatrice Elisabetta profetizzava la caduta di tutti i troni e non era che una Madame Bovary che amava Heine, soccorreva di nascosto Wagner e soffocava alla corte per il peso dell'etichetta che le vietava perfino di aprire da sola la finestra, di passeggiare nel parco di Lainz, di accarezzare i bimbi di popolani e contadini, di girare per le vie di Vienna, facendo acquisti nei negozi, come soleva a Monaco, fanciulla e libera? Paria il Luccheni, schiava l'imperatrice, come doveva essere schiavo suo figlio Rodolfo fino a quando si sottrasse con il suicidio al peso di una vita protocollare troppo angusta per il suo largo spirito.
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