Non riuscirò mai a vedere l'umanità nel casellario romantico-demagogico della propaganda volgarmente sovversiva che in Italia ebbe una delle sue tipiche espressioni nelle caricature di Scalarini. Tutti gli ufficiali scalarineschi erano dei bellimbusti con il monocolo, con i baffoni e con un muso da iena. Tutti i borghesi scalarineschi erano dei suini con unghie tigresche e stracarichi di ori e di gemme. Il demagogo della caricatura ha cambiato padrone, come quasi tutti i demagoghi dell'oratoria comiziesca. I Podrecca e i Notari della pornografia anticlericale dovevano finire a fare i baciapile; quelli che piantavano la bandiera nel letamaio e la sputacchiavano dovevano finire imperialisti; quelli che mangiavano vivi i carabinieri (a parole, s'intende) sono finiti prefetti. E, purtroppo, sono ancora sul pulpito sovversivo dei bagoloni che intellettualmente e moralmente non valgono più dei transfughi.
A diciassett'anni il generale Morra di Lavriano, quello dello stato d'assedio in Sicilia, mi appariva come una bestia feroce. Parlando o scrivendo di lui non avrei esitato a paragonarlo a Gallifet, che fu in realtà un criminale. Ora non lo potrei, perché mi affiorerebbe alla mente un ricordo: quello di una lapide da lui apposta su un pozzo che fu tomba a una coppia suicida. Si trattava di contadini ancora fanciulli, suicidi per amore contrastato. Il generale fece murare il pozzo, volle che vi fossero piantati dei salici e un roseto e dettò l'epigrafe, che era un piccolo capolavoro di sintesi e di poesia.
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