Non gli bastò saperlo al confino, tubercolotico. Lo volle sepolto vivo in carcere, dove lo tenne pur sapendolo soggetto a emottisi, a svenimenti prolungati, a febbri altissime. Il prof. Arcangeli, che visitò Gramsci nel maggio 1933, dichiarò in un rapporto scritto che «il detenuto Gramsci non potrà sopravvivere a lungo in condizioni simili. Il suo trasferimento si impone in un ospedale civile o in una clinica, a meno che sia possibile accordargli la libertà condizionale».
Mussolini, pensando che un avversario avvilito è preferibile a un avversario morto in piedi, gliela avrebbe accordata, la libertà condizionale, ma in calce a una domanda di grazia. Ma Gramsci non era un qualsiasi Bombacci e rifiutò la grazia, che sarebbe stata, secondo come egli ebbe a definirla, «una forma di suicidio».
Il martirio, già settennale, continuò. Passarono ancora degli anni. Le condizioni del recluso si fecero così gravi da far temere prossima la morte. Un'agitazione internazionale reclamò la liberazione. Quando fu ordinato il trasferimento in clinica, la concessione era fatta a un moribondo.
Gramsci era un intellettuale nel senso intero della parola, troppo sovente usata abusivamente per indicare chiunque abbia fatto gli studi. Lo dimostrò in carcere: continuando a studiare, conservando sino all'ultimo le sue eccezionali facoltà di critica e di dialettica. E lo aveva dimostrato come capo del Partito Comunista Italiano, rifuggendo da qualsiasi lenocinio retorico, rifuggendo dalle cariche, sapendo isolarsi.
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