Par che la febbre, per cui gli abderiti correvan le strade recitando poemi, sia venuta sotterra co’ vostri cantori, verseggiatori e poeti importuni, a profanare con barbare cantilene ogni selva, ogni fonte, ogni grotta, sacra al silenzio e alla pace dei morti. Ogn’italiano che scende tra noi, da alcun tempo in qua, parla di versi, recita poemetti, è furibondo amatore di rime, e recasi in mano a dispetto di tante leggi infernali o tometto, o raccolta, o canzoniere, o sol anche sonetto, e canzone, che vantasi d’aver messa in luce, benché a tutt’altro mestier fosse nato. Or pensate, arcadi magistrati, in qual confusione sia tutto il nostro pacifico regno poetico. Orazio, Catullo, Properzio, e gli altri miei vecchi compagni latini e greci, che non han meco tentato per calmar questa insania? Ma peggio abbiam fatto. Costor ci trattano con disprezzo, non fan conto di greci né di latini, e dicono apertamente di voler oscurare la nostra fama e scuotere il giogo dell’antichità, per tanti secoli e da tante nazioni portato. Giunse talun di loro a rimproverarci l’ignoranza del linguaggio italiano, per la quale non possiamo noi giudicare (essi dicono) della moderna poesia. Mi son dunque applicato con esso gli amici a conoscere la vostra lingua, né difficile è stato a noi l’impararla, poiché in gran parte è la stessa che noi parlammo, vivendo in mezzo a Roma, con gli schiavi e col popolo e con le femminette. A voi non è ignoto che, oltre alla lingua latina più nobile e più corretta, che gli scrittori e i patrizi usavano, un’altra era in uso tra ’l volgo, che popolare dicevasi, come legger potete in Cicerone, e molti de’ vostri dotti han mostrato, se il ver mi disse un certo vostro autore, per nome Celso Cittadino, già tempo fa, e recentemente Scipione Maffeio, uomo che alla modestia, all’eloquenza, al sapere mi parve più tosto del mio, che del secolo vostro.
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