Lo studio da me postovi nuovamente m’ha fatto più familiare l’italico idioma, e in questo vi scrivo, temendo assai non sia forse usato abbastanza il latino tra voi, né molto inteso, come vediamo di tanti poeti che a noi vengon d’Italia oggidì. Che se voi trovate tuttor nel mio stile qualche aria di latinità, mi scuserete, sapendo non giugnersi mai al possesso d’una lingua non propria, e molto men della vostra presente, che sembra diversa da quella de’ vostri padri dell’ottimo secolo, e forestiera lor sembra oggi quaggiù. Per altro, qual essi la scrissero, e quale anche oggi si scrive da chi ben la studia, a noi parve bellissima. Riconosciamo in essa ricchezza e pieghevolezza mirabile, chiarezza, armonia, dignità e forza, con altre doti acquistate da lei ne’ cinque ultimi secoli, in che maggiormente da chiari ingegni fu coltivata. L’amico Orazio al leggere un giorno certe poesie (frugoniane si nominavano, io credo) d’armonia piene, di colori e di grazia, preso da un estro improvviso, gridò a noi rivolto: O matre pulcra filia pulcrior, applicando a questa figlia della lingua latina quel verso da lui fatto in altro proposito. E, nel vero, piace a noi tutti singolarmente la figlia, perché ha schifati con gran vantaggio que’ suoni troppo conformi, e quelle tante e sì tetre terminazioni in um, ur, us, che disfiguravan la madre.
Egli è ben vero che nell’italica poesia trovammo da prima qualche spiacevole novità. L’infinito numero e qualità di versi differenti, grandi, mezzani e piccioli, tronchi e sdruccioli, tutti ad accento e non a misura, or troppo simili, or troppo diversi nel suono; senza fissi riposi e rompiture, onde par verso ogni parlare; infin, quanto era nuovo per noi, ci noiava.
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Italia Orazio
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