Pur de’ bellissimi versi, che a quando a quando incontravansi, mi facean tal piacere che quasi gli perdonava. Ma giunto poi, saltando assai carte senza leggerle, a Francesca d’Arimino, al conte Ugolino, a qualche altro passo siffatto: oh che peccato, gridai, che sì bei pezzi in mezzo a tanta oscurità e stravaganza sian condannati! Amico caro, diss’io rivolgendomi verso Omero, guai a noi se questo poema fosse più regolare e scritto tutto di questo stile. Si lesse più d’una volta Ugolino; chi piagnea, chi volea metterlo in elegia, chi tentò di tradurlo in greco od in latino; ma indarno. Ognun confessò, che uno squarcio sì originale e sì poetico, per colorito insieme e per passione, non cedeva ad alcuno d’alcuna lingua, e che l’italiana mostrava in esso una tal robustezza e gemeva in un tuono così pietoso che potrebbe in un caso vincere ogni altra.
E buon per noi, che lungamente si lesse e si gustò questo tratto, perché tutto il resto ci fastidì senza misura. Il Purgatorio e il Paradiso molto peggio si stan dell’Inferno, che neppur una di tali bellezze non hanno, la qual si sostenga per qualche tempo con nobile poesia. Oh che sfinimento non fu per noi lo strascinarci, per cento canti e per quattordici mille versi, in tanti cerchi e bolge, tra mille abissi e precipizi con Dante, il qual tramortiva ad ogni paura, dormiva ad ogni tratto, e mal si svegliava, e noiava me, suo duca e condottiere, delle più nuove e più strane dimande che fosser mai! Io mi trovava per lui divenuto or maestro di cattolica teologia, or dottore della religione degl’idoli, insieme le favole de’ poeti e gli articoli della fede cristiana, la filosofia di Platone e quella degli arabi mescolando, sicché mi pareva essere troppo più dotto che non fui mai, e meno savio di molto che non sia stato vivendo e poetando.
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