Or nello stile di Dante quante v’ha di tai doti indispensabili e necessarie? Leggetelo e, sin da principio, ponetelo a questo tormento di non prevenuto e non cieco esame. Troppo lungo sarei volendo i versi, le frasi, le parole, citarne in infinito. Qualche cosa ne dirò forse in altra mia lettera. Incominciate frattanto ad essere meno superstiziosi. Io per me non so abbastanza stimare quest’uomo raro, che il primo ha osato pensare ad un poema e dipignere arditamente tutti gli oggetti della poesia in mezzo a tanta ignoranza e barbarie onde il mondo traeva il capo. Egli è più pregevole d’Ennio eziandio, poiché ha trasportati i tesori della scienza, ch’era allora nel mondo, dentro al seno della poesia. Dante è stato grand’uomo a dispetto della rozzezza de’ suoi tempi e della sua lingua. Ma ciò non fa ch’egli sia per ogni studioso un autor classico, dopo sorti tant’altri migliori, in grazia d’alcune centinaia di bei versi, come nol fu Ennio in Roma dopo comparsa l’Eneida, se ardisco pur dirlo.
LETTERA TERZA - AGLI ARCADI
Eravam ragunati greci e latini per leggere, dopo tanti, alcun maestro poeta d’Italia, che col suo stile ci consolasse dell’incoltezza deforme della Divina Comedia; ed io già stava per cominciare, quando improvviso levossi e gridò Giovenale:
— Nec mi aurum posco, nec mi pretium dederitisnec cauponantes bellum, sed belligerantes... —
e seguìa pur con tai versi, e con papiri vecchissimi tra le mani vociferando, se Orazio non accorrea per farlo tacere.
— E che? — rispose il satirico, — poiché vi piace dormire al suon de’ versi di Dante, non è più giusto far questo onore a que’ di Ennio e di Lucilio, che furono i nostri Danti?
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