Che, se pur egli è vero, come verissimo è pure, non consistere il pregio d’un libro e d’un poema in alcuni bei tratti qua e là scelti e cercati, ma sì nel numero delle cose belle paragonato a quello delle malvage, e nella soprabbondanza di quelle a queste, io concludo che Dante non deve esser letto più d’Ennio e di Pacuvio, e che, al più, se ne devono conservare alcuni frammenti più eletti, come serbansi alcune statue o bassi rilievi d’un antico edifizio inutile e diroccato. —
Tacque alfin Giuvenale, e parve a tutti quel declamatore e satirico ch’egli è infatti per sua natura, ma insieme fu riconosciuto veridico e giudicioso nella sostanza delle sue critiche. Allor tutte quell’ombre di poeti, che mi stavano attorno, e massimamente i greci, che si dolevano del torto lor fatto per tanto tempo dagl’italiani, i quali avean messo Dante in pari sede con esso loro, dimandarono d’esser redintegrati. Fu dunque deciso che Dante non dovesse aver luogo tra loro, non avendo il suo poema veruna forma regolare e secondo l’arte. Esiodo, Lucrezio e gli altri autori di poemi storici o filosofici, a’ quali parea più tosto appartenere, ricusaron d’ammetterlo, se non si purgava di tante finzioni ed invenzioni capricciose e non ragionevoli, che forman peraltro una gran parte dell’opera. Terenzio, Aristofane e i comici dimostrarono che per un titolo di Comedia non si può divenire poeta comico, massimamente dove mai non si ride e spesso si dorme; infin non trovavasi chi volesse della Divina Comedia restar onorato, e Dante correva pericolo d’esser escluso dal numero de’ poeti.
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