Io non osava stender la mano ad alcuno, per non offenderne mille; sinché, vedutomi appresso un Petrarca, che un piccol volume era e discreto, a quel m’appigliai. Il nome di ristorator delle lettere, la corona poetica da lui ottenuta in Campidoglio, e la fama delle sue rime, n’accendevano di curiosità. Egli più volte s’era con noi trovato in persona, ma non d’altro che del suo poema dell’Africa e d’altre opere sue latine ci aveva intertenuti, avendogli quelle più che le italiane, ei dicea, recato onore vivendo, e a noi renduta l’antica estimazione in Europa. Ma poco diletto n’avemmo alla pruova per molti vestigi di rusticità e di barbarie che nel suo stile latino e nel poema avevamo incontrati. Per altra parte, il Fracastoro, il Sannazaro ed altri che con noi vivono in compagnia, le rime italiane ci lodavano sempre ed il Petrarca esaltavan per quelle singolarmente, avvertendoci insieme esser elleno di nuova maniera poesie né per avventura al nostro gusto adattate. Appena, infatti, ne cominciai la lettura, che ognuno rimase incerto e sospeso, sentendo una poesia non conosciuta, un pensar nuovo, uno scrivere inusitato. Greci e latini si guardavano in faccia, e, quantunque Platone altra volta ci avesse parlato in quel modo a un di presso, e con idee somiglianti, della bellezza e dell’amore, pur nondimeno eran nuove per noi certe immagini, certe grazie di stile, certi colori poetici petrarcheschi. Tibullo ed io sentivam qualche gusto più che non sentivano gli altri. Quella dolce passione che sta nell’anima e dalla calda immaginazione è dipinta soavemente in ogni oggetto, quell’amor sovrumano, que’ voli eccelsi ed impetuosi d’un affetto sublime e lontano da ogni nebbia di senso, a noi piacevano, mentre Orazio e Properzio, Pindaro ed Anacreonte, le trovavano insulse o fredde.
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