Un poeta di lingua vivente, che canta d’amore, e d’una semplice donna, come pur trova il modo di farsi oscuro, enimmatico ed insoffribile per la rima e per la durezza nelle tre parti dell’opera sua? Qual gusto è mai codesto degl’italiani, di far poesie sublimi insieme ed incolte, e di ricorrere per gustarle ad un pedante, che lor rompe ogni vezzo con una penna di ferro? Se un distico, se un epigramma, od un’elegia, non riusciva a noi felicemente, noi la davamo al fuoco, essendo certi che ne avrebbe più danno fatto che onore, o tanto le tornavam sopra che venisse perfetta e sino al fine leggiadra. Come dunque il Petrarca e chi lo legge ponno soffrire un principio bellissimo e un finimento schifoso in tanti componimenti?
Del mar Tirreno alla sinistra spondadove rotte dal vento piangon l’onde etc. .
Chi crederebbe che, dopo ciò, cada il poeta in un rivo, spingendolo amore, e vi si bagni i panni, e quindi finisca:
Piacemi almen d’aver cangiato stiledagli occhi a’ piè, se del lor esser molli
gli altri asciugasse un più cortese aprile?
Qual più nobile esordio di quello?
Qual mio destin, qual forza o qual ingannomi riconduce disarmato al campo
là ’ve sempre son vinto etc. .
E qual chiusa più ridicola e fredda di questa?
Amor con tal dolcezza m’unge, e punge,
ch’i’ nol so ripensar non che ridire,
che né ingegno né lingua al vero aggiunge.
Noi fummo incantati poc’anzi da quell’altro sonetto sì delicato e sì vago:
Onde tolse amor l’oro, e di qual venaper far due trecce bionde, e in quali spine
colse le rose, e in qual piaggia le brine
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Petrarca Tirreno
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