Sapevamo eziandio che l’Ariosto medesimo non avea già voluto fare un poema secondo le regole della ragione e del buon gusto, ma che piuttosto avea scritto affine di dilettare gli amici, a’ quai leggeva i suoi canti, non al giudicio della severa posterità; onde in noi crebbe il ribrezzo a quel nuovo parlare di traduzione latina. Tristo me, dicevami il cuore; il mio verso, e il mio stile, come può stare in bocca di paladini, de’ negromanti, delle streghe, che pur son gli eroi di quel poema? Che ha a fare la lingua latina co’ palagi incantati, co’ viaggi sull’ippogrifo, con gli assalti delle balene, e con tanti giganti e miracoli e duelli d’arme fatate? I soli nomi di que’ guerrieri e cavalieri erranti ben malagiati devon rendere i versi latini massimamente virgiliani. Che sarà di tante buffonerie, stravaganze ed oscenità, che l’Ariosto medesimo fanno arrossire? Vi so dir che il mio stile a questa volta perde il titolo di virginale, che un tempo ottenne.
— Ma se l’Ariosto, — ripigliò Orazio incollerito — l’Ariosto stesso ho veduto io ed udito ridersi de’ suoi capricci, e sé chiamar pazzo non men d’Orlando! Or cedano entrambi al traduttore, che certamente maggior follia non può darsi di quella che fa spendere a un uomo ben nato molta parte della sua vita in opera sì faticosa e al buon giudicio sì opposta. E pur mostra costui diplomi, ed elogi, ed approvazioni de’ letterati suoi coetanei, da’ quali or or si partì con gran danno, dic’egli, della repubblica letteraria. Convien dir veramente che abbiano gl’italiani travolte le idee dell’ottima poesia, e che i giudici d’essa sian pedanti, o sofisti di professione.
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