E pretende costui un luogo tra noi per l’autorità di cotai lodatori, e perché? Per aver fatto latino l’Orlando? Ma chi nel richiese? Una qualche latina nazione nuovamente risorta che non intenda le lingue volgari; e chi l’ha a leggere, in un tal secolo, in cui bisogna volgarizzare i latini perché sian letti? Quale utilità, qual diletto, qual merito è dunque in ciò? E per ciò fare, due grossi tomi di cotal merce s’hanno ad empiere ed ornarli perfino degli argomenti de’ canti e di tutte le allegorie messe in latino, certo cred’io la prima volta che in latino si troveranno allegorie in un poema; e un intrepido stampatore si trova che sa non impallidire all’aspetto d’un precipizio? Oh noi beati, che allor vivemmo, quando a scrivere con istento sulle tavolette di cera eran costretti i copisti ad usar lo stiletto! O come sariano moltiplicati i Codri e i Mevii, se la stampa li soccorreva? Eh vada dunque il nuovo Ariosto ed Orlando, a recitare i suoi versi tra l’ombre illustri di Dagalaiffo e di Ermenerico, degni consoli di un tal romano scrittore, e con lor faccia pompa del nobil distico che bene sta appunto al suo ritratto:
Carmen utrumque legas, poteris vix dicere lectomusa latina prior, musa ne tusca fuit?(4)
Nessun certamente sospetterà codesta novella musa esser vissuta ne’ tempi antichi della latinità. —
Sfogata ch’ebbe Orazio la bile poetica, io così presi di nuovo il ragionamento sopra Petrarca.
Leggiam pertanto le tre canzoni sopra gli occhi, quella della lite d’amore innanzi alla ragione, quell’altra «Se 'l pensier che mi strugge», e la compagna sua «Chiare fresche e dolci acque»; «Di pensier in pensier»; e poche altre più simili a queste, e tutto ciò mettiamo a memoria e ripetiamolo per diletto.
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