Perciò mi duol quasi ch’egli non sia poeta fuorché agl’italiani, a nessun’altra nazione familiare, poiché non può gustarsi da chi non ha sin dall’infanzia bevuta quella dolcezza tutta propria della lingua e della poesia ch’egli creò. Quindi è che noi stessi non ne sentiamo per anco tutta la grazia, benché dalla nostra lingua e dall’uso fatto con Dante abbiam molto aiuto, e massimamente dall’anima, che poetica già sortimmo, e dall’esperienza dell’ottima poesia; né però mai sarà tradotto il Petrarca in lingua alcuna, come lo fummo noi e i greci con sufficiente rassomiglianza in alcune. Ma buon per lui, che non sarà per ventura disfigurato e tradito da tanti barbari verseggiatori senz’anima e senza orecchi, o prosatori eziandio, siccome lo fummo noi e lo siam tuttogiorno senza poterci difendere.
— Ahimè, — soggiunse allora un non so chi, che in disparte stava ascoltando, — che peggio ancora accadde al Petrarca, poiché trovossi un barbaro di nuova foggia che lo travestì non già nelle parole, ma ne’ pensieri e nel senso de’ versi suoi, facendol parlare di tutt’altr’oggetto più santo e più reverendo, onde questo si venne ad esser profanato e quel del poeta a far pietà, e il Petrarca spirituale intitolò il suo volume. —
— Non v’ha pazzia, — ripres’io — che in fatto di poesia non si possa aspettare dagli uomini; ed io fui pur lacerato a brani, ed Omero il fu pure, affin che dicessimo co’ nostri versi insieme accozzati le stravaganze più ridicolose che un pazzo immaginava. —
Allora levossi in tutti gli antichi un mormorio, chi ricordava un’ingiuria, chi un’altra fatta all’opere sue da mille importuni scrittori di verso e di prosa, di tutte l’età, d’ogni nazione.
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