Occupazione vi manca, e vi soprabbondan talenti. Di moltissimi oziosi molti si fan poeti, di queste accademie ed arcadie e colonie. Cantar bisogna e di versi la vita nudrire e la società sostenere. Al comodo, al facile siam tutti inclinati, ricca natura è in pochissimi, eccitamenti e premi e mecenati si cercano indarno: che altro rimane se non che prender d’altrui, copiare dai libri, impastare, cucire, infine imitare, e darsi per poeta? Qual danno ciò faccia alla poesia, qual impaccio alla vita civile, il sanno gl’italiani, e il seppimo in Grecia eziandio qualche volta. Un sol rimedio sarebbe a tal male, ma come sperarlo, e da chi? Un tribunale dovrebbe istituirsi, a cui dovesse ognun presentarsi che venga solleticato da prurito poetico. Innanzi a giudici saggi gli si farebbe esame dell’indole e del talento, e certe pruove se ne farebbono ed esperimenti. Chi non reggesse a questi, all’aratro, e al fondaco, come natura il volesse, o alla spada e alla toga n’andasse; chi riuscisse, un privilegio otterrebbe autentico e sacro di far versi e pubblicarli, qual di chi batte moneta del suo. Bando poi rigoroso a chi falsificasse il diploma o contrabbando facesse di poesie, non altrimenti che co’ monetari s’adopera, e co’ frodatori de’ dazi. Prigione, o supplizio secondo i falli, e questo non già poetico e immaginario, ma inevitabile e vero. —
Sorrisero i gravi antichi al parlar di Luciano, e, volti agl’italiani, che stavano intorno alle sbarre aspettando sentenza dell’opere loro, lodaronli d’eleganti verseggiatori e di culti scrittori della lor lingua, ma sentenziarono insieme l’opere loro com’era giusto.
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Grecia Luciano
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