M’avvenni appunto ad un luogo ove stava sedendo e dentro e fuori una moltitudine di persone diverse, tra loro ragionando, mentre qua e là versavasi loro dentro piccole tazze liquori fumanti, che, al color tetro, ed al profumo odoroso, asiatiche e straniere giudicai. Di poesia ragionavasi appunto, e leggevansi versi di fresco venuti del più gran poeta, dicevano, che vivesse. Tesi l’orecchio ad udirli, ma indarno, che in cotal lingua erano, e pronunziati per guisa, che tutto era nuovo per me. Quel linguaggio mi parve barbaro affatto, sì per le voci d’acuto accento tutte finite, e la più parte fischianti, e moltissime rotte tra denti, e sì per la novità. Compresi infine, dal ragionare de’ circostanti, essere quello gallico idioma. Pensate qual mi rimasi, ascoltando i romani parlar la lingua dei Celti, e leggere i versi d’un poeta aquitanico, o belgico ch’egli fosse, siccome del nuovo Omero e Orazio. Ma crebbe in me lo stupore, allor che, indagando come ciò fosse, venni a sapere che l’ultime Gallie transalpine, che gli eburovici, i vellocassi, i carnuti, erano i greci e i romani di questo tempo, Lutezia l’Atene dell’arti e degl’ingegni, la Roma d’un nuovo Augusto e d’un secolo nuovo; colà i Plauti e i Terenzi, gli Euripidi e i Sofocli, i Tulli, i Tucididi, i Titi Livi, spirare e rivivere; in Italia tradursi l’opere loro, quelle imitarsi e leggersi soprattutto, e quindi il linguaggio coltivarsi de’ Galli più che il latino e l’italico, per ben parere e per vivere urbanamente e non sembrar barbaro in Roma stessa.
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