Della sola mia Eneida ben cento edizioni le più in gran volumi pesanti vi numerai, chiedendo a me stesso come quel mio poema nato dall’ozio ed al piacer destinato potesse esser divenuto argomento di noia, e ingombro ambizioso di biblioteche.
Ma a dirvi, o Arcadi, come in tal luogo venissi di poi sovente, e quanti leggessivi italiani poeti, e quai giudìci ne udissi da chi frequentava, che molti n’avea quell’albergo, e infine quai ne facessi io medesimo dopo lunga ricerca e considerazione, troppo lungo sarebbe, e da formarsene nuova biblioteca. Altra volta ve ne scriverò, e, poiché la lunghezza è sempre noiosa e massimamente parlandosi di poesia, di ciascuno de’ vostri poeti darò sentenza, qual mi parrà più giusta, senza stendermi in lungo esame. Spero che a me ciò vorrete accordare, almen per l’amore che tutti abbiamo alla brevità, oltre all’uso che parcamente far vogliono i morti dell’eloquenza. State sani.
LETTERA NONA - AGLI ARCADI
Non posso esprimere lo stupore che sempre più mi prendeva, al conoscere le vicende avvenute su questa terra e in Roma stessa dal mio secolo in qua. Gli avanzi del Panteon, de’ teatri, degli acquedotti, mi certificavano con mio dolore ch’io pur era in Roma. Ma il popol romano scemato di tanto, vestito come gli schiavi del mio tempo, marcito nell’ozio, e lentissimo nell’operare; i tesori d’Asia e d’Europa ridotti a cedole e a carta; tutta Roma piena d’àuspici, di àuguri, di flamini in abiti vari, e di figure e forme infinite, e alcuni tra questi vestiti di sacco e cinti di corda abitatori del Campidoglio; gli usi infine, i costumi, i vestiti e le fogge del vivere mi facevano credere che, se quella era Roma, fosse oggi abitata da cento diverse nazioni, né più ricordasse d’esserne stata domatrice e signora.
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