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      Gli spettacoli, è vero, più mansueti e più piacevoli che non gli antichi mi parvero, i templi e i riti più santi e più augusti, i comodi della vita, il commercio socievole, la splendida urbanità de’ privati mi ricreavano, e il veder di continuo le matrone romane in cento cocchi lucenti più che quel di Giunone, e mezzo ascose dentro una nuvola ondeggiante e ricca, che si move con loro, tal m’offriva immagine di grandezza che Augusto egli stesso dopo l’azziaca vittoria non ne avea tanta sul carro del suo trionfo. Ma quai novità, d’altra parte, mi venivano innanzi! Quanti incontrava con vesti nere e con capo sì bianco ch’io li prendea per canuti, benché d’aspetto più che giovanile, se non avessi scoperta la polve bianchissima che lor dal capo cadea su le vesti! E quanti altri di spada armati e con essa al fianco a visitare gli amici, ad orare ne’ templi, come se dappertutto temessero assalto, eppur tutt’altro mostravano che d’esser guerrieri. Il non chiamarsi alcun mai che col titolo di signore, benché nato plebeo, mentre Augusto nol volle parendogli troppo eccelso; il dirsi servo anzi schiavo a cento padroni che s’incontran per via, dopo d’essere stato il popolo romano sovrano del mondo e dopo aver per ischiavi tenuti i re; e gli onori, le inclinazioni, i gran titoli ad ogni gente profusi, tutto ciò ben parea strano a me, che, con Orazio e con gli altri, diceva «mio caro amico» a Mecenate, ch’era l’amico e il ministro dell’imperadore. Assai temo che codesti usi vostri siano indizi di vanità e di debolezza, onde volete nodrirvi d’un’apparente grandezza, perduta avendo la vera.


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Lettere Virgiliane - Lettere Inglesi e Mia Vita Letteraria
di Saverio Bettinelli
1758 pagine 205

   





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