Le ottave rime del Poliziano si serbino con alcun piccolo pezzo di Giusto de’ Conti, che non sia tutto petrarchico, alcune immagini ed espressioni del Tibaldeo.
Bembo, Casa, Costanzo, Guidiccioni e i cinquecentisti tutti riducansi ad un librettino di venti sonetti e di tre canzoni, togliendo, a un bisogno, qua un quadernetto, là un terzetto, o una stanza, in cui sia qualche nuova bellezza, e mettendo alcuna cosa nelle chiuse ai sonetti, sicché mostrino avere un finimento.
L’Ariosto può far de’ poeti ed eziandio più regolati di lui. Egli è gran poeta, se alcuni canti si tronchino dell’Orlando furioso ch’egli stesso condanna, e tutte le stanze che non contengono fuor che turpi buffonerie, miracoli di paladini, incanti di maghi, o sozze immagini indegne d’uomo bennato. La macchina del poema non ne soffrirà danno alcuno. I suoi capitoli, che han nome di Satire, si rispettino, quand’esse al buon costume e alla religione han rispetto. Dalle commedie qualche scena si prenda, che rider faccia davvero e non arrossire.
Gli Orlandi poi tutti, i Ruggeri, i Rinaldi, gli Amadigi, i Giron cortesi, e cento siffatti, sian tutti soppressi senza pietà, se voglion essere ostinatamente epici italiani. Dell’Orlando del Berni conservisi qualche cosa, e tutto ancora, se si trova il segreto d’animarlo. La grazia naturale di quello stile aureo merita che si avvivi.
Il Tasso più non si stampi senza provvedimento all’onor suo. L’episodio d’Olindo e di Sofronia è inutile. I lamenti d’Armida sono indegni del suo dolore.
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