Pensate come io mi divertii di questa scena. E Londra è pur l’emporio del pensar libero e contiene un milione di cervelli indipendenti e sovrani ciascun nel distretto(13) del suo cranio. In mezzo, dunque, al regno della libertà e della filosofia, si vedono tali commedie. Che sarà in Italia? Poveretti! Siete ancor bamboli, in paragone di noi, giganti nella sublime filosofia spregiudicata. Ci vuol altro che ripetere a mente qualche passo di Lettera persiana o della Pulcella e citare Toland e Tindal(14)! Siete sempre copie, noi siamo originali; i barbieri e i calzolai di Londra vi ponno far da maestri in questa filosofia. La ragione, la filosofia, la libertà di pensare, questo è il linguaggio d’un parlamentaio e di un marinaio. L’uno sedendo legislatore nelle due camere, l’altro calafattando la nave, detestano i pregiudizi. Che direbbono gl’italiani, che ne sono sì schiavi, di me forestiere, che giudicargli ardisco? Vi ricordate dello stupore che dimostrò, visitandomi, quel cavaliere poeta? Vide sul mio tavolino Dante e Petrarca insieme con Pope e con Adisson. Mi vide gustare que’ suoi poeti e talora anteporli ai miei. Quante carezze mi fece! Sebbene, bentosto cambiò stile, quanto parlai di qualche critica di quei due maestri suoi perfettissimi, secondo lui, e impeccabili. Come perdé la pazienza e la creanza, non potendo spiegare quel passo di Dante, che si era impegnato di capir tutto quanto, e diede in furie, e disse villanie contro mezza la compagnia; scomparve il cavaliere, e non si vide fuor che il poeta.
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